testo di Daniele De Luigi
Fotografie di Cesare Di Liborio
Questo imponente edificio, che vediamo nelle immagini di Cesare Di Liborio, è scomparso, o meglio, è come se lo fosse. La metamorfosi orchestrata da Renzo Piano ha trasfomato quel che restava dello zuccherificio dell’azienda Eridania in un tempio della musica, l’Auditorium di Parma; noi vi possiamo ancora osservare quella cattedrale laica, consacrata alla civiltà industriale, ridotta a rovina di archeologia del recente passato. Così ce la mostra il fotografo, pervasa dal silenzio del tempo che non è più. Un silenzio che contrasta con il destino assegnatogli, e diverso da quello che la ricerca sonora contemporanea ha pur conosciuto: non lo si può ascoltare, ma ha musicalità che Di Liborio ci sa far vedere e sentire. C’è n’è anzitutto una visiva: ciò va inteso come ritmo, generato dalla successione dei piani e dalla partizione delle superfici, il che ci riporta a una lezione imperitura che parte da Piero della Francesca e arriva a Piet Mondrian, a quella pittura che, cercando l’astrazione, anela allo sposalizio con ciò che è immateriale, come appunto la musica. In quella lezione è l’origine dell’armonia assoluta di queste fotografie.
Affiora tuttavia un’altra musicalità: quella dei flussi della memoria, che si insinuano nello spazio libero del silenzio. Non si tratta di ricordi di episodi reali, che certo alcuni potrebbero esperire di fronte a queste immagini, sono rumori di un vissuto che immaginiamo, a una distanza indefinibile. Le macerie, il verde, gli anfratti bui, le tracce sui muri diruti sono i segni di una sospensione tra due epoche: quella dei pesanti rumori metallici, dei macchinari e della fatica, e quella odierna, delle melodie di strumenti musicali che si diffondono con acustica perfetta. Ciò che vediamo nelle fotografie di Cesare Di Liborio, in realtà, non appartiene all’una né all’altra. Forse, è un tempo che non è mai esistito.
Daniele De Luigi