testo in catalogo di Daniele De Luigi
Tra le parole latine connesse all’idea di divisione e passaggio, limen possiede un particolare carattere. Finis e limes, ad esempio, indicano una linea distinta che separa due campi parimenti concreti e conosciuti, e in funzione del dividere recisamente unus da alter esse acquistano il proprio significato. Chi oltrepassa un finis, chi valica un limes sa cosa lo aspetta. Ciò non si può dire per chi si ritrova dinanzi al limen, che siamo soliti tradurre con l’italiano “soglia” ma che tende a figurare piuttosto un varco verso l’ignoto. Non a caso esso fu usato sovente per suggerire quel punto inafferrabile, carico di mistero, che si situa tra la vita e la morte, o tra il buio e la luce. Il senso del termine non è racchiuso nell’evidenza di ciò che segna fisicamente l’adito, ma si attesta e si concentra sull’indefinitezza dello stesso (in limine). Il fatto che gli altri termini siano dotati di odierni corrispettivi, mentre l’etimo di limen è andato perduto, è forse un sintomo di come sia per noi naturale considerare l’esistenza di territori altri, ma non di dimensioni altre.
La fotografia parrebbe condannata ad essere quanto di più lontano dalla possibilità di rivelare l’invisibile che da esso promana. Essa ci ripresenta la realtà e gli oggetti come appaiono, pienamente riconoscibili, e questo suo carattere di analogon, ormai approdato all’iperreale, sembra sempre più appiattire l’uomo su una realtà ineludibile, specchio perfetto che ci incanta e imprigiona, o, in alternativa, essere abbattuto come unica possibilità di fuga dal reale stesso.
Eppure, la storia della fotografia è disseminata di immagini che, pur nell’adesione a un pacato realismo, nella fedeltà alla sua natura di impronta, ci conducono sottilmente su un piano del tutto diverso. Se in superficie ci rammentano la realtà fenomenica ordinaria che riproducono, al tempo stesso esse rigenerano questa medesima realtà presentandola in un modo nuovo che inquieta, tanto più perché essa era sempre stata disponibile al comune sguardo quotidiano. Una piccola, decisiva frattura si è aperta. La fotografia si fa evocativa.
Sulle orme lasciate da due maestri italiani, Luigi Ghirri e Mimmo Jodice, Cesare Di Liborio rintraccia i limina che costellano il suo orizzonte visibile e vi si manifestano. Sono cancelli aperti su terre indistinte, o serrati a protezione di nulla; portali murati dal tempo, o schiusi sull’impenetrabile; alberi guardiani e passaggi nel bosco. Muti, sommessi, qui forse per la prima volta sembrano chiamarci. Nella resa precisa dei bianchi e dei neri li possiamo riconoscere, e tuttavia il loro aspetto è inedito.
Alcune di queste fotografie furono già riunite sotto un titolo fortemente simbolico: “Le Colonne d’Ercole”, rinvio al mito con cui l’antichità diede figura al limitare del non plus ultra precedente il mondo incognito, poi tramutate da Dante in metafora della sete di conoscenza assoluta. A quelle se ne aggiungono ora altre, fino alle tre che ci pongono ai piedi di una distesa di sabbia sulla quale, mentre il deserto si spalanca dinanzi a noi, si svela un breve tratto di un’antica strada cancellata dal tempo.
Lo sguardo è sospinto oltre il foglio di carta, quasi dimentico di esser di fronte a un’immagine. I suoi dettagli ci invitano a procedere, sembrano penetrabili, poi si esauriscono.
Cosa c’è, cosa troveremo oltre questi limina? Nient’altro che noi stessi. Quelli che non siamo, che non abbiamo mai pensato di poter essere, che non ricordiamo di essere stati, che sentiamo di poter essere e tuttavia qualcosa ci trattiene dal diventarlo. Queste dimensioni invisibili della nostra esistenza aleggiano lì, inseparate da noi proprio come queste soglie non separano concretamente nulla.
La fotografia non può certo mostrarci l’invisibile. Ma può farci vedere che esiste. Lo riporta alla nostra coscienza e ci rende consapevoli della possibilità di un attraversamento. Nell’immobilità e nel silenzio assoluti, le fotografie di Di Liborio assumono una profondità, che sarà restituita a chi sia nella disposizione di schiudere la propria vitale inquietudine.
Daniele De Luigi
Reggio Emilia, marzo 2006
Among the Latin words related to the idea of division and passage, limen holds a special meaning. Finis and limes, for example, indicate a distinct line, separating two both firmly established and well-known fields, and their meaning lies in the sharp division of one from the other. Whoever crosses a finis, or a limes knows what’s waiting on the other side. However, this cannot be said of whoever finds themselves facing a limen, usually translated into English as “threshold”, but which tends to represent a crossing into the unknown. Not by chance this was often used to suggest an elusive point, charged with mystery, between life and death, or dark and light. The meaning of the word is not found within the evidence of that which physically indicates an entrance, but focuses more on its actual indefiniteness (in limine). The fact that the other terms have a modern-day equivalent, while the etymon of limen is now lost, is perhaps synonymous with how it is now natural for us to consider the existence of other territories, but not of other dimensions.
Photography would seem condemned to remaining remote from the possibility of revealing the invisible emanating from limen. To us, it represents reality and objects just as they appear, entirely recognisable. Its characteristic of being an analogon, now touching upon the hyperreal, seems to increasingly subdue man within a reality that cannot be eluded, a perfect mirror that both enchants and imprisons us, or alternatively seems to be eliminated as the sole chance of escape from the very same reality.
Even so, the history of photography is rich in images which, while belonging to a quiet realism faithful to its tracing nature, subtly leads us onto a totally different plane. While on the surface the photographs remind us of the ordinary phenomena they reproduce, they then recreate this same reality from a new point of view that unsettles the observer, enhanced by the fact that the subjects have always been open to common and daily scrutiny. A small and clean-cut fracture has been opened. Photography has been made evocative.
In the wake of two Italian maestros, Luigi Ghirri and Mimmo Jodice, Cesare Di Liborio retraces the limina scattered across and lighting up his horizon. They are gates opening onto indistinct lands, or closed tight against a void, gateways walled off by time, or left ajar against the impenetrable; guardian trees and paths through woods. Silent and meek, and here they seem to call us for the first time. The sharp blacks and whites give rise to a feeling of recognition, while their appearance remains totally new.
Some of these photographs have already been collected under the deeply symbolic title of “Hercule’s Columns”, referring to the myth used in ancient times to give shape to the threshold of the non plus ultra, before the world of the unknown, then transformed by Dante into a metaphor of the thirst for absolute knowledge. Others can now be added to these, through to the three that lay an expanse of sand at our feet, and while this desert opens up in front of us, a small fragment of an antique road cancelled out by time is revealed.
Our glance is pushed beyond the paper, virtually forgetting that it is facing an image. Its details invite us to move on, seemingly penetrable, to then stop us in our tracks.
So what is it that we discover beyond these limina? Nothing more than ourselves. That which we are not, which we have never believed ourselves capable of being, which we have no recollection of being, which we feel able to be but something has always stopped us from becoming. These invisible dimensions of our existence hover right here, not separated from us, just as these thresholds have never really separated anything.
Photography can not of course show us the invisible. But it can show us that it exists. It brings it to our knowledge, and makes us aware of the possibility of crossing these borders. In the absolute immobility and silence, the photographs of Di Liborio take on a depth that is returned to those able to open up their personal sense of restlessness.
Daniele De Luigi
Reggio Emilia, march 2006